I campi lunghissimi e i primi piani, i colori accesi e le albe ovattate dell’estremo ovest, i silenzi lunghi e le urla interrotte: il mito americano e la sua disillusione, la fine della frontiera e della sua epoca – c’era una volta il Vecchio West e il Montana ne ha una gran nostalgia con i suo cowboy tristi che non sono più solitari ma solo soli e i ranch e le mandrie e i chaps e la neve che cade e non la polvere che rotola. Ne Il potere del cane i conflitti e le passioni del misantropo Phil Burbank (Cumberbatch) e quelle del fratello George (Plemons) più moderate con la vedova del luogo (Dunst) saturano in una scala di rossi e di azzurri che Jane Campion dirige con la grazia di chi è abituata al trionfo del colore neozelandese. Il rimettere in discussione la mitologia maschile alla fine dell’America in un film al limite della perfezione non solo stilistica ha rimesso al centro del villaggio la chiesa di Campion troppi anni dopo il sottovalutato Bright Star consacrando colei che dell’elogio del silenzio ha fatto il proprio vezzo. La lentezza e le sospensioni ne amplificano la magnificenza visiva.
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