Perché la miglior serie Netflix ha esaurito la spinta propulsiva e creativa delle prime stagioni arenandosi su un terreno melodrammatico da saga adolescenziale non preventivatile. Che The Crown sia (stata?) solo un esercizio ben riuscito di stile s’era capito fin dal primo episodio della prima stagione. Arrivata alla quarta con il pilota automatico di una scrittura cucita addosso a interpreti e situazioni, è proprio sulla confezione più attesa che si sgualcisce il pacchettino. Non su Gillian Anderson, ma su Emma Corrin: perché se la Thatcher vive di un’interpretazione lieve ma intensa, è la parodia di Diana a restituircela monca. Corrin gioca sulla somiglianza per un’imitazione incolore che stona dinnanzi a colleghi che hanno reso celebre la serie per loro interpretazioni – ed è inevitabile che la stagione sprofondi quanto più si allontani da Colman e HBC. Concessioni stilistiche e di narrazione sempre aggirate precedentemente adesso vengono a galla nella speranza di intercettare un pubblico nuovo e che non riparta necessariamente da Claire Foy ma che si innamori del sorriso triste della principessa reticente piuttosto che della messa in piega granitica della Lady di ferro. Tra il sacrificio del servo sacro e (altri) ingressi indesiderati a Buckingham Palace, l’ultima stagione di Colman procede lenta e triste verso un epilogo sbiadito.
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