Perché non risparmia nessuno: carnefici e vittime, spettatori e visitatori, animali (ok, forse loro sì) e animalisti. Lui, Tiger King, al secolo Joseph Maldonado-Passage, nato Schreibvogel ma più noto come Joe Exotic, e la sua corte dei miracoli. Del come sia e siano un ritratto americano della più becera (solo?) accozzaglia with trash l’hanno già scritto tutti e di quanto sia impossibile staccarsi dal racconto pure. Il mockumentary a puntate di Eric Goode e Rebecca Chaikli, disponibile su Netflix, è perciò diventato il fenomeno di una generazione (anch’essa) in cattività che in poche settimane ha finito il catalogo delle piattaforme d’intrattenimento come un pugno di croccantini in una ciotola troppo grande.
Joe Exotic, come avrete notato, è quel pazzo con la giacca con le frange e il mullet ossigenato che abbraccia tigri dagli occhi spenti nella prima schermata alta di Netflix. Ha qualcosa che somiglia a uno zoo, a un parco divertimenti o a qualcosa di simile, dove alleva e sfrutta i suoi amati (sì, amati, davvero) big cats per il divertimento di visitatori entusiasti disposti a sborsare fino a 600 dollari per un selfie in compagnia di un cucciolo. La fauna umana che gira intorno al protagonista non è da meno: c’è un marito sdentato, un vice senza gambe, un’altra senza un braccio, un’antagonista che tanto normale non è ed è proprietaria di uno zoo nemmeno tanto all’acqua di rose e altri personaggi strambi.
Oltre all’immaginabile succede anche dell’altro. Parecchio altro. Perché il racconto della triste America passa attraverso un uomo triste che alleva tigri tristi per un pubblico triste alla caccia di foto tristi che in meno di una decina di episodi racconta tutto l’immaginabile di ciò che pensavamo fosse (nella creazione prima e nella dispersione poi) un mito lontano.
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